L'efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro nell'ordinamento italiano

AutorRaimundo Simão de Melo/Cláudio Jannotti da Rocha
Páginas71-86

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1. La durata del contratto collettivo: dall’ordinamento corporativo alla disciplina attuale. – L’analisi giuridica della disciplina della durata del contratto collettivo non può prescindere dalla preventiva indagine volta a definire i mutamenti storici che hanno interessato il campo normativo di riferimento.

La prevalente importanza assunta dall’elaborazione teorica rispetto alla norma positiva ha rappresentato, per molti versi, il prodotto dell’imbarazzo dei giuristi post-corporativi dinanzi agli inadeguati strumenti forniti dalla disciplina codicistica. Il legislatore del ’42 aveva, infatti, ritenuto preferibile astenersi dalla regolamentazione giuridica di un fenomeno già oggetto di un compiuto corpus di norme rappresentato dall’allora vigente ordinamento corporativo.

L’approfondimento della disciplina corporativa costituisce, quindi, l’obbligato punto di partenza di un’indagine che si prefigge l’analisi degli aspetti che interessano il contratto collettivo dal particolare punto di vista dell’efficacia temporale2.

Quale strumento essenziale di politica economica e di difesa del superiore interesse nazionale, il contratto collettivo era stato oggetto in epoca fascista di una stringente regolamentazione.

Il r.d. 1 luglio 1926, n.1130, attuativo della legge 3 aprile 1926 n. 563, istitutiva dell’ordinamento corporativo, aveva individuato nella Corte di Appello in funzione di Magistratura del Lavoro l’unica istanza competente a decidere, in caso di successiva modificazione dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione del contratto, le nuove condizioni di lavoro (art. 71), con sentenza, su richiesta della parte interessata o del PM, che poteva anche essere soggetta a revisione (art. 89).

La stretta cornice legale entro cui la contrattazione collettiva poteva muoversi, veniva ulteriormente rafforzata dalle sanzioni previste in caso di inadempimento del contratto, le quali potevano giungere sino al risarcimento dei danni conseguenti al mancato esercizio del dovere di influenza (art. 55) ovvero, nei casi più gravi, ad una vera e propria responsabilità di natura politica (art.7-8-9 r.d. 1130/1926).

Oltre alle suindicate disposizioni, assumevano rilevanza anche quelle previste nella legge 25 gennaio 1934, n. 150, successivamente riprodotte scrupolosamente negli artt. 2073-2074 cod.civ.. In virtù di tali disposizioni, il preminente obiettivo di evitare soluzioni di continuità nella regolamentazione dei rapporti di lavoro aveva condotto alla previsione dell’efficacia ultrattiva del contratto (art. 2074 cod.civ.) e alla minuziosa disciplina della “denunzia” attraverso precisi termini temporali (art. 2073 cod.civ.). A completamento della rigida disciplina vigente, il legislatore del codice intervenne successivamente anche tramite l’obbligo di determinazione della durata del contratto (art. 2071, comma 3, cod.civ.).

La demolizione dell’ordinamento corporativo ad opera del r.d.l. 9 agosto 1943, n.721 e del D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944 n. 369, e la perdurante mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione indussero i primi commentatori, in virtù di preminenti esigenze di ordine sociale, ad ipotizzare, sulla base di un’astratta identità di fattispecie, l’applicabilità delle norme dettate dal codice civile in materia di contratti collettivi3.

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La successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha rimarcato, tuttavia, l’inconciliabilità tra l’indubbia matrice corporativa di tali disposizioni e i principi di ordine costituzionale che ispirano il nuovo ordinamento4.

Ai fini più particolari del presente oggetto di indagine, le tensioni che si registrano nell’opera ricostruttiva della disciplina applicabile al contratto collettivo postcorporativo discendono in primo luogo dalle difficoltà di ricondurre un fenomeno di siffatta portata alla normativa generale dettata dal codice in materia di contratti.

In tema di durata del contratto collettivo, la principale questione dalla quale non è possibile prescindere, è rappresentata dall’applicabilità tout court dell’art. 1373, comma 2, cod. civ., il quale riconosce la possibilità di esercitare il recesso nei contratti ad esecuzione periodica o differita anche dopo l’inizio dell’esecuzione del contratto stesso.

La centralità della funzione normativa e la varietà dei contenuti contrattuali richiedono una valutazione critica delle possibilità di applicazione delle generali norme civilistiche in materia di recesso ed un’interpretazione approfondita e puntuale che possa fornire soluzioni adeguate al problema della riconducibilità del contratto collettivo di diritto comune all’unico schema del contratto ad esecuzione periodica o differita5.

Gli approfondimenti che hanno interessato il tema in questione, hanno sovente fondato le proprie ricostruzioni sulla base di un’aprioristica ed acritica assimilazione del contratto collettivo alla fattispecie contrattuale prevista dalla norma in ragione di una supposta unicità di funzione del contratto collettivo6.

Successivamente, la migliore elaborazione dottrinale ha, invece, messo in luce la coesistenza nell’ambito del medesimo contratto di una pluralità differenziata di rapporti e la conseguente incertezza in ordine alla centralità della funzione normativa del contratto collettivo di diritto comune7.

L’articolazione contenutistica del contratto collettivo impone pertanto l’accoglimento di soluzioni differenziate in ragione delle molteplici funzioni alle quali il contenuto contrattuale è preordinato.

2. Il recesso nel contratto collettivo a tempo indeterminato. – La valorizzazione della libera volontà delle parti, frutto dell’inquadramento del contratto collettivo nell’ambito dell’art. 1322 cod.civ., e l’impossibilità di ricorrere all’applicazione dell’art. 2071, comma 3, cod.civ., il quale imponeva quale elemento essenziale del contratto collettivo corporativo la determinazione della sua durata, spianano la strada alla legittima stipulazione di un contratto collettivo privo di termine finale di durata 8 .

La disciplina dettata dal codice civile attribuisce in via generale alla volontà delle parti la possibilità di prevedere nel regolamento negoziale il diritto di recedere dal contratto, salvo che lo stesso non abbia già avuto esecuzione (art. 1373, comma 1, cod.civ.). La valorizzazione dell’autonomia negoziale rappresenta, pertanto, l’estrinsecazione della più generale premessa contenuta nell’art. 1372 cod.civ., secondo il quale il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge.

Il limite invalicabile rappresentato dall’esecuzione del contratto subisce una deroga, limitatamente ai contratti ad esecuzione periodica o differita, ad opera del già menzionato 2º comma dell’art. 1372 cod.civ., il quale tuttavia esclude ogni efficacia del recesso sulle prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione9.

Pertanto, in assenza di specifiche disposizioni legislative o contrattuali, l’unica possibilità di scioglimento sarà rappresentata dal mutuo dissenso10.

Dinanzi all’apparente tassatività della normativa codicistica, l’elaborazione dottrinale ha rinvenuto nei principi generali dell’ordinamento una ulteriore causa di recesso.

Nei contratti a tempo indeterminato, infatti, in virtù del generale principio della contrarietà dell’ordinamento ai vincoli perpetui, il recesso viene pacificamente ammesso anche in mancanza di un’apposita clausola convenzionale o di una

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previsione legislativa11. La dottrina, riprendendo una concezione di derivazione tedesca, è solita infatti distinguere il recesso legale ordinario, frutto del principio della temporaneità dei vincoli obbligatori e attinente ai soli contratti privi di termine, da quello straordinario, previsto dalla legge nei rapporti muniti di termine e rispondente alle esigenze particolari dello specifico contesto contrattuale12.

La problematica relativa al recesso ordinario ha dato luogo a particolari conseguenze anche nell’ambito della disciplina della durata del contratto collettivo in virtù della necessità – indubbiamente pressante in questo contesto – di evitare vincoli obbligatori perpetui che impediscano un tempestivo adeguamento alle mutevoli condizioni del mercato.

La possibilità di recedere anche in mancanza di espresse previsioni è stata così ammessa pacificamente anche nei confronti dei contratti collettivi a tempo indeterminato13.

Al favore pressoché consolidato emerso in tema di ammissibilità del recesso si contrappongono, tuttavia, diverse argomentazioni preordinate alla ricerca di una giustificazione più consona alla presenza di una generale causa di scioglimento del contratto. In questo senso possono essere lette le soluzioni avanzate da coloro i quali hanno preferito parlare di conversione in un contratto con facoltà di recesso del contratto nullo per mancanza del termine finale di durata14.

Con finalità analoghe, l’introduzione di una generale possibilità di recedere è stata da altri giustificata dalla necessaria integrazione di una fattispecie contrattuale non completa a causa della mancata previsione della facoltà di recesso15. L’assenza di univocità nell’elaborazione dottrinale è stata confermata dai diversificati indirizzi interpretativi emersi in giurisprudenza.

Alla iniziale prevalenza dell’interpretazione più restrittiva, la quale escludeva ex art. 1372, comma 1, cod.civ. la facoltà del recesso se non accordata da una specifica previsione legale o contrattuale16, ha fatto seguito un orientamento più favorevole17, il quale è giunto sino al punto da giustificare la libera recedibilità attraverso l’incompatibilità tra la sussistenza di un vincolo perpetuo e il principio della buona fede nell’esecuzione del contratto ex art. 1375 cod.civ.18. Secondo tale interpretazione la nozione della buona fede diverrebbe l’unico limite all’esercizio del recesso nei contratti privi di termine.

Altre argomentazioni hanno tuttavia prospettato una di-versa...

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