Il ruolo dell'impresa sociale nel quadro degli enti non profit nell'ordinamento italiano

AutorFederico Pernazza
Páginas50-58

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  1. Il perseguimento di interessi gene-rali o collettivi attraverso attività di impresa trova tradizionalmente il proprio più importante ambito di concretamento nell'am-pio e variegato fenomeno delle imprese pubbliche.

    Negli ultimi decenni del XX secolo, tuttavia, in molti paesi industrializzati si è evidenziato un diffuso processo di libera-lizzazione e privatizzazione che ha ridotto la portata dell'intervento pubblico diretto nelle attività economiche; inoltre, i vincoli ed i controlli introdotti in ossequio alle esi-genze di una sana concorrenza hanno di fatto limitato l'utilizzazione dello strumen-to dell'impresa pubblica nel perseguimento di interessi generali.

    Correlativamente, l'esigenza di con-tenimento della spesa pubblica e di flessi-bilità delle strutture organizzative ha in-dotto le Pubbliche Amministrazioni, a li-vello nazionale e a livello locale, ad ester-nalizzare attività loro proprie, tradizional-mente estranee all’intervento di organizza-zioni di impresa.

    Nel contempo, i servizi di assistenza sociale e sanitaria, di tutela dell'ambiente, di formazione extrascolastica, di valoriz-zazione del patrimonio culturale, di inseri-mento di lavoratori svantaggiati e disabili, pur rientrando negli ambiti di intervento di una moderna concezione dello Stato e delle Amministrazioni Pubbliche locali hanno assunto dimensioni che rendono non soste-nibile il loro espletamento diretto da parte della Pubblica Amministrazione.

    D'altronde, i servizi che oggi definia-mo di utilità sociale hanno costituito da sempre l'oggetto di attività di secolari isti-tuzioni, religiose e laiche, caratterizzate da una grande varietà di modelli organizzativi (enti ecclesiastici, fondazioni, charitable trusts, associazioni, etc.), che sono soprav-vissute alle ricorrenti stagioni legislative contro i cosiddetti "enti intermedi", dalla legislazione rivoluzionaria francese alle leggi contro la "manomorta" agli albori dello Stato Italiano.1

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    Le dimensioni degli ambiti di inter-vento e la necessità di disporre di strutture, di strumenti tecnici, di personale specializ-zato e di adeguate risorse finanziarie, ha attribuito progressivamente maggiore im-portanza ai profili organizzativi e all'ado-zione di efficienti criteri di gestione. Gli enti privati che forniscono servizi di interesse sociale debbono ormai dotarsi di strutture organizzative stabili e seguire modelli gestionali assimilabili a quelli propri delle imprese commerciali.

    Nel contempo, i servizi ed i prodotti frutto dell’attività di enti non-profit non sono distinguibili sul piano merceologico da servizi e prodotti di imprese con fini di lucro.

    Si pone, quindi, la necessità, sul piano teorico come sul piano normativo, di deli-neare la correlazione tra tali enti e l'istituto dell'impresa e di valutare in che misura lo statuto dell’imprenditore sia loro applica-bile.

  2. Nell’ordinamento italiano la rego-lamentazione delle attività economiche è imperniata sulla figura dell’imprenditore, cui è riferito uno statuto generale, che si articola ed arricchisce di ulteriori comples-si di regole correlati alle sub-fattispecie dell’imprenditore commerciale, dell’imprenditore agricolo e del piccolo impren-ditore.

    Gli elementi qualificanti la figura dell’imprenditore sono, come noto, lo svol-gimento di un'attività produttiva di beni o di servizi destinati al mercato, la sussistenza di una organizzazione ed il carattere professio-nale ed il metodo economico con cui l'atti-vità è esercitata.

    Non vi è dubbio che anche in relazio-ne agli enti che sono deputati statutaria-mente alla fornitura di servizi o alla produ-zione di beni di utilità sociale siano riscon-trabili i primi tre elementi caratterizzanti l'impresa: l'eterodestinazione dei beni e dei servizi prodotti è elemento intrinseco dello scopo che essi si prefiggono, mentre la continuità e stabilità dell'attività, aspetti richiamati nell'art. 2.082 c.c. con il termine "professionalità", sono quanto meno normali in enti che si prefiggono statu-tariamente scopi che vengono perseguiti attraverso un'attività e non singoli inter-venti occasionali. Parimenti, nel settore delle attività di interesse sociale l'elemen-to dell'organizzazione è ormai ineludibile, non soltanto rispetto all'ente, che spesso è strutturato secondo modelli complessi, ma anche in relazione all'espletamento delle attività che tendono a coinvolgere diverse professionalità ed a utilizzare locali e mez-zi con le conseguenti crescenti esigenze organizzative.

    L'unico elemento che potrebbe mette-re in discussione la riconduzione ad attività di impresa dell'esercizio di attività di produzione di beni e servizi di utilità sociale da parte di enti non-profit è dunque il criterio della "economicità" propria dell'im-presa.

    Tuttavia, la dottrina italiana è ormai da tempo prevalentemente orientata ad escludere che il criterio dell'economicità dell'attività d'impresa vada interpretato restrittivamente nel senso di ricondurre ad essa soltanto le attività svolte con fine di lucro, ovvero con l'intento di ottenere un'eccedenza dei ricavi rispetto ai costi.2

    L'approfondimento della tematica dell’impresa pubblica, che ha costituito uno degli ambiti più rilevanti in cui si è sviluppato il dibattito sul significato del criterio di economicità e di conseguenza sull’ampiezza della figura dell’imprenditore e della sfera di applicazione del suo statuto, ha condotto ad analoghi risultati.3

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    Pertanto, é oggi un dato pressoché in-discusso che qualsiasi attività di produzio-ne di beni e di servizi che sia svolta nell'in-tento di ottenere quanto meno il pareggio tra i costi ed i ricavi possa qualificarsi economica e sia riconducibile, in presenza de-gli altri requisiti già descritti, ad attività d'impresa.

    Restano, quindi, escluse dall 'ambito dell'impresa quelle attività che siano svol-te con la mera funzione di erogare beni o servizi, senza curare che i ricavi coprano almeno i costi.

    In base a quanto sopra le attività di produzione di beni e servizi di utilità sociale svolte con criterio di mera economicità sono qualificabili attività di impresa o, più specificamente, di "impresa sociale". L'impresa sociale è dunque sul piano logico-sistematico una sub-fattispecie dell'impre-sa e, pertanto, le si applica lo statuto gene-rale dell'imprenditore, in quanto non specificamente derogato.

    É evidente, tuttavia, che l'importanza e l'utilità per la collettività dei servizi of-ferti dall’impresa sociale e l'assenza di uno scopo di lucro possano giustificare inter-venti normativi che rendano per le imprese sociali meno gravoso l'adempimento degli obblighi propri dell’imprenditore ovvero agevolino od incentivino direttamente o indirettamente la loro attività.

    D'altronde, ciò corrisponde ad espli-cite indicazioni della costituzione italiana che, oltre ad individuare il contrasto con l'utilità sociale quale limite dell'iniziativa economica privata, prevede la possibilità di interventi legislativi volti ad indirizzare e coordinare l'attività economica pubblica e privata a fini sociali (art. 41.3).

    L'introduzione di una legislazione speciale per l'impresa sociale presenta pe-culiari problematiche in relazione all’indi-viduazione delle attività di utilità sociale, al coordinamento della regolamentazione sull'impresa sociale con quella dei sogget-ti che ne sono i potenziali titolari, agli stru-menti di incentivazione, alla crisi e all’in-solvenza. Si pone, infine, la necessità di una scelta di fondo: attribuire natura imperativa o facoltativa alle norme speciali.

    Con riferimento a questi specifici profili è interessante esaminare la disciplina dell'impresa sociale introdotta in Italia dal D. Lgs. 24 marzo 2006, n. 155 emanato inbase alla legge delega 13 giugno 2005, n. 118, che, dopo vari interventi normativi specifici, tenta di offrire un quadro organico...

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